Dumn ass ne The Count of Monte Cristo scrive: "Luigi Vampa era un semplice pastore, addetto alla fattoria del conte San Felice situata fra Palestrina e il lago di Gabri: nacque a Pampinara e fino dall'età di cinque anni entrò al servizio del conte. Suo padre, pastore in Agnani, possedeva un piccolo gregge e viveva della lana dei montoni e del prodotto delle pecore che veniva a vendere a Roma. Fin da fanciullo il piccolo Vampa aveva un'indole strana. Un giorno all'età di sette anni, andò a trovare il curato di Palestrina, e lo pregò d'insegnargli a leggere. Era una cosa assai difficile, perché il pastorello non poteva lasciare le pecore. Ma il buon curato andava tutti i giorni a dire la messa in un piccolo borgo, troppo povero e troppo poco considerevole per poter mantenervi un prete, e che, non avendo neppure un nome, era conosciuto sotto quello di Borgo. Egli offrì a Luigi di trovarsi sulla strada che percorreva nell'ora del ritorno, e di dargli così la lezione, prevenendolo che questa sarebbe stata corta, e che per conseguenza avrebbe dovuto applicarsi molto per renderla profittevole. Il fanciullo accettò con gioia. Luigi conduceva tutti i giorni il gregge a pascolare sulla strada da Palestrina a Borgo; e la mattina alle nove il curato passava: il prete ed il fanciullo si sedevano sull'orlo di un fosso e il giovane pastorello prendeva lezione sul breviario del curato. Il prete fece fare a Roma da un maestro di calligrafia tre esemplari di alfabeto, uno grande, uno mezzano e l'altro piccolo, e gli fece vedere che imitando quegli esemplari sopra una pietra di lavagna, con l'aiuto di una punta di ferro, poteva imparare a scrivere. La sera stessa, quando ebbe rinchiuso il gregge nell'ovile, il piccolo Vampa corse dal fabbro ferraio di Palestrina, prese un grosso chiodo e lo arroventò, lo martellò, lo arrotondò, e ne formò una specie di stiletto antico: l'indomani unì una quantità di pezzi di lavagna, e si mise all'opera. Dopo tre mesi egli sapeva scrivere. Il curato meravigliato di questa profonda intelligenza, e ammirando questa attitudine, gli fece regalo di parecchi quaderni di carta, di alcune penne, e di un temperino. Allora ebbe a fare un altro studio; ma uno studio che era ben poca cosa dopo il primo. Otto giorni dopo maneggiava la penna come prima lo stiletto. Il curato raccontò quest'aneddoto al conte di San Felice, che volle vedere il pastorello, lo fece leggere e scrivere innanzi a sé, ordinò al suo intendente di farlo mangiare coi domestici, assegnandogli due scudi al mese. Con questo denaro Luigi comprò dei libri e delle matite. Difatti applicava a tutti gli oggetti il suo spirito di imitazione, e, come Giotto fanciullo, copiava sulle lavagne le pecore, gli alberi, le case. Poi con la punta del temperino cominciò a tagliare dei pezzi di legno, e a dar loro tutte le forme che voleva. Pinelli, l'artista popolare, aveva cominciato così. Una ragazzina di sei sette anni, cioè poco più giovane di Vampa, era pur essa alla custodia delle pecore in una vicina tenuta, presso Palestrina: questa bambina era orfana, nata a Valmontone, e si chiamava Teresa. I due fanciulli s'incontravano, sedevano l'un presso all'altro, lasciavano i loro greggi mischiarsi e pascere insieme, discorrevano, ridevano, scherzavano; poi la sera separavano il gregge del conte San Felice da quello del barone Cervetri e si lasciavano, promettendosi di ritrovarsi l'indomani. L'indomani infatti mantenevano la parola, e intanto crescevano sia l'uno che l'altra. I loro istinti naturali si svilupparono. Accanto al gusto per le arti, che Luigi aveva spinto tant'oltre quanto è permesso nella solitudine, egli era a tratti triste, ardente, collerico per capriccio, burbero sempre. Nessuno dei giovani di Pampinara, di Palestrina e di Valmontone aveva potuto, non solo prendere alcuna influenza su di lui, ma neppure divenire suo compagno. Il suo temperamento e l'essere sempre disposto ad esigere, e non mai a lasciarsi piegare ad alcuna concessione, gli allontanava ogni approccio amichevole, ed ogni dimostrazione di simpatia. Teresa sola comandava con una parola, con un gesto, con uno sguardo questa indole, che cedeva sotto la mano di una donna, ma che sotto quella di un uomo si sarebbe irritata all'eccesso. Teresa al contrario era vivace, vispa e gaia, ma eccessivamente civettuola. I due scudi che Luigi riceveva dall'intendente di San Felice, il ricavato di tutti i lavori d'intaglio che vendeva ai mercanti di giocattoli in Roma, si tramutavano in orecchini di perle, in collane di cristallo, in spilli di oro; per la prodigalità del giovane amico, Teresa era la più bella e la più elegante di tutte le contadine delle vicinanze di Roma. I due giovani continuavano a crescere, passando la giornata insieme, e si abbandonavano senza opposizione a tutti i moti della loro natura; così nelle conversazioni, nei loro desideri, nei loro castelli in aria, Vampa si figurava sempre capitano di vascello, o governatore di una provincia; Teresa si vedeva ricca, vestita delle più belle stoffe, seguita da servitori in livrea. Quando avevano passata un'intera giornata ad abbellire il loro avvenire di questi folli e brillanti sogni, si separavano per ricondurre ciascuno il suo gregge alla stalla, ricadendo dall'altezza dei sogni alla umiliante realtà della loro condizione. Il giovane pastore disse un giorno all'intendente del conte, che aveva veduto un lupo uscir dalle montagne della Sabina e ronzare attorno al gregge. L'intendente gli dette un fucile; era ciò che ambiva Vampa. Questo fucile aveva un'eccellente canna di Brescia che sparava come una carabina inglese; l'incassatura soltanto era stata in qualche modo guastata dal conte, mentre dava la caccia alle volpi, e per questo il fucile messo fra gli scarti. Non c'era difficoltà per un intagliatore come Vampa. Esaminò la forma primitiva, calcolò ciò che bisognava cambiare per metterlo a posto, e fece un'altra incassatura zeppa di ornamenti così meravigliosi che certamente avrebbe potuto guadagnarci una ventina di scudi, dal solo incasso, se fosse venuto a venderlo in città. Ma non lo vendette: un fucile era stato da gran tempo il sogno del giovane. In tutti i paesi il primo bisogno che prova ogni cuore forte, ogni giovane vigoroso, è quello di un'arma, che assicuri nello stesso tempo l'assalto e la difesa, e facendo terribile chi la porta spesso lo fa temuto. Da quel giorno Vampa impiegò nell'esercizio del fucile tutt'i momenti che gli rimanevano liberi: comprò della polvere e delle pallottole, e tutto gli serviva di bersaglio: il tronco di un ulivo, triste, pallido e cenerino, che vegeta sul declivio delle montagne della Sabina; la volpe, che nella sera usciva dalla tana per cominciare la caccia notturna; l'aquila, che s'innalza per l'aria. Ben presto diventò così valente, che Teresa, superato quel primo moto di paura causata dalla detonazione, si divertiva nel vedere il giovane compagno colpire dove aveva indicato, così precisamente come avesse accompagnato il tiro con la mano. Una sera, un lupo uscì effettivamente da un buco, vicino al quale i due giovani avevano l'abitudine di stare; il lupo non aveva fatti dieci passi sulla pianura che già era morto. Vampa, fiero di questo bel colpo, se lo caricò sulle spalle e lo portò alla fattoria. Tutti questi particolari davano a Luigi una certa reputazione nei dintorni della fattoria: l'uomo superiore in qualunque luogo si trovi si forma una clientela d'ammiratori. Nei luoghi circonvicini si parlava di questo giovane pastore come del più destro, del più forte, e del più bravo contadino che fosse a dieci leghe di distanza, e quantunque Teresa, in una zona più estesa ancora, passasse per la più bella delle ragazze della Sabina, pure nessuno si arrischiava a dirle una parola d'amore, perché la si sapeva amata da Vampa. E frattanto i due giovani non si erano mai detti che si amavano. Avevano vissuto l'uno accanto all'altro, come due alberi che uniscono le radici nel suolo che intrecciano i rami nell'aria, il profumo nel cielo; soltanto era in loro lo stesso desiderio di vedersi: questo desiderio divenne bisogno, ed era per loro assai più facile comprendere la morte che una separazione, anche di un sol giorno. Teresa aveva allora sedici anni e Vampa diciassette. In quel tempo si cominciava a parlare molto di una banda di briganti che si rintanava sui monti Lepini. Il brigantaggio, per quanto efficaci furono le misure prese, non è mai stato completamente sconfitto nelle nostre campagne. Qualche volta manca un capo, ma, quando se ne presenta uno, è difficile che manchi di una banda. Il celebre Cucumetto, perseguitato negli Abruzzi, cacciato dal regno di Napoli ove sostenne una vera guerra, aveva traversato il Garigliano come Manfredi, ed era venuto fra Sonnino e Giuperno, a rifugiarsi sulle rive dell'Amasina, egli si occupava a riordinare una banda che avrebbe camminato sulle onde di Gasparone e di Decesaris, che sperava ben presto di superare. Molti giovani di Palestrina, di Frascati e di Pampinara scomparvero da casa. Sulle prime, si stette in pena sul loro conto, ma ben presto si seppe ch'erano andati a raggiungere la banda di Cucumetto. In capo a poco tempo Cucumetto diventò l'oggetto dell'attenzione generale. Venivano ovunque citate imprese di questo capo bandito di estrema audacia, e di rivoltante brutalità. Un giorno rapì una ragazza, la figlia d'un agrimensore di Frosinone. Le leggi dei banditi sono positive: una giovane appartiene da prima a colui che la rapì; poi gli altri la tirano a sorte fra loro, e l'infelice serve ai piaceri di tutta la banda fino a che i banditi l'abbandonino o muoia. Quando i parenti sono ricchi abbastanza per riscattarla, si manda un messaggero che tratta la taglia; la testa della prigioniera risponde della fede dell'emissario. Se la taglia è ricusata, la prigioniera è irrevocabilmente condannata. La giovane aveva nella banda di Cucumetto il suo amante che si chiamava Carlini. Riconoscendo il giovane, gli tese le braccia, e si credette salva. Ma il povero Carlini riconoscendola sentì spezzarglisi il cuore, perché non si faceva illusioni sulla triste sorte che l'aspettava. Tuttavia essendo il favorito di Cucumetto, e partecipando da tre anni a tutti i suoi pericoli, e avendogli salvata la vita, uccidendo con un colpo di pistola un gendarme che aveva già levata la sciabola, sperò che costui avrebbe avuto un po' di pietà. Lo chiamò a parte, mentre la giovane appoggiata contro il tronco di un pino in una radura della foresta tutta nuda e ricoperta soltanto della pittoresca capigliatura delle contadine Romane, nascondeva il viso ai lussuriosi sguardi dei banditi. Carlini raccontò tutto al suo capo, i suoi amori con la prigioniera, i loro giuramenti di fedeltà, e come ogni notte, quando la banda era in quei dintorni, i due amanti si davano convegno in un luogo appartato. Quella sera appunto Cucumetto aveva mandato Carlini in un villaggio, e così non aveva potuto trovarsi al convegno; ma Cucumetto vi era giunto per caso ed aveva così rapita la ragazza. Carlini supplicò il suo capo di fare un'eccezione e rispettar Rita, dicendogli che il padre era ricco, e avrebbe sborsato una buona somma per riscattarla. Cucumetto parve arrendersi alle preghiere dell'amico, e lo incaricò di trovare un contadino da poter mandare dal padre di Rita a Frosinone. Carlini allora si avvicinò alla ragazza, le disse all'orecchio che era salva, e la invitò a scrivere a suo padre una lettera su quanto le era accaduto annunciandogli che la somma del riscatto era fissata a trecento piastre. Al padre non si dava che dodici ore, vale a dire fino alle nove del mattino del giorno seguente. Scritta la lettera, Carlini corse alla pianura per cercarvi un messaggero. Trovò un giovane che faceva pascolare il suo gregge. I messaggeri naturali dei briganti sono i pastori, che vivono fra la città e la campagna, tra la vita selvaggia e la vita incivilita. Il giovane pastore partì subito, promettendo di essere prima di un'ora a Frosinone. Carlini tornò subito, gaio e contento, a raggiungere la sua amante ed annunciarle la buona novella. La banda era al medesimo posto e cenava allegramente con le provvigioni che i briganti prendevano ai contadini come tributo: fra quegli allegri convitati Carlini cercò inutilmente Cucumetto e Rita. Domandò dove fossero; i banditi risposero con uno scroscio di risa. Un freddo sudore gli bagnò la fronte, e parve che l'angoscia lo prendesse per i capelli. Rinnovò la sua domanda. Uno dei convitati riempì un bicchiere di vino di Orvieto e glielo tese dicendo: "Alla salute del bravo Cucumetto e della bella Rita!" In quel momento Carlini credette di udire un grido di donna: indovinò tutto. Prese il bicchiere e lo spezzò sulla faccia di colui che glielo aveva offerto, poi si slanciò nella direzione del grido. A cento passi, alla svolta di un cespuglio, trovò Rita svenuta nelle braccia di Cucumetto. Scorgendo Carlini, Cucumetto si alzò tenendo in ognuna delle mani una pistola. I due banditi si guardarono un istante: l'uno, il sorriso della lussuria sulle labbra; l'altro, il pallore della morte sulla fronte. Si sarebbe creduto che tra questi due uomini stesse per succedere qualche cosa di terribile. Ma a poco a poco i lineamenti di Carlini cominciarono a calmarsi: la mano, che aveva portato ad una delle pistole che pendevano dalla cintura, si ritrasse di lato. Rita era coricata fra loro due. La luna rischiarava la scena. "Ebbene?" disse Cucumetto, "hai fatto la commissione di cui eri incaricato?" "Sì, capitano" rispose Carlini, "domani, prima delle nove, il padre di Rita sarà qui col denaro." "A meraviglia! Intanto, mentre l'aspetto, noi vogliamo passare un allegra notte. Questa giovane è magnifica, e tu hai davvero buon gusto, mastro Carlini. Così, non sono egoista, torniamo ai nostri camerati per tirare a sorte colui cui ora deve appartenere." "Siete deciso ad abbandonarla alla legge comune?" chiese Carlini. "E perché si dovrebbe fare eccezione in suo favore?" "Avevo creduto che alla mia preghiera..." "E che, sei tu più degli altri?" "E' giusto.' "Ma sta' tranquillo" rispose Cucumetto ridendo, "prima o dopo, verrà la tua volta..." I denti di Carlini si serrarono al punto che parevano spezzarsi. "Andiamo" disse Cucumetto, facendo un passo verso i convitati. "Vieni tu?" "Vi seguo..." Cucumetto si allontanò, senza perdere di vista Carlini, perché temeva che volesse colpirlo di dietro, ma niente nel brigante tradiva un'intenzione ostile. Era in piedi, le braccia conserte, presso Rita sempre svenuta. Cucumetto pensò per un istante che il giovane la prendesse fra le braccia o fuggisse con lei. Ma ciò poco gli importava: da Rita aveva avuto quel che voleva; quanto al danaro, trecento piastre divise fra la banda, faceva una così povera somma che ben poco gliene importava. Continuò dunque il suo cammino verso i briganti; ma, con suo gran stupore, Carlini arrivò quasi prima di lui. L'estrazione a sorte! l'estrazione a sorte!" gridavano tutti i banditi, nello scorgere il loro capo. E gli occhi di tutti quegli uomini sfavillarono di ebbrezza, e di lascivia, mentre la fiamma del fuoco acceso gettava su tutti una luce rossastra che li faceva somigliare a demoni. La loro domanda era giusta: e però il capo fece un cenno colla testa, condiscendeva. Tutti i nomi furono subito messi in un cappello, compreso quello di Carlini, e il più giovane della banda tirò un bullettino dall'urna improvvisata. Quel bullettino portava il nome di Diavolaccio; era quello stesso che aveva proposto a Carlini di bere alla salute del capo, e a cui Carlini aveva risposto col spezzargli il bicchiere sulla faccia. Diavolaccio, vedendosi favorito dalla fortuna, diede in uno scoppio e risa. "Capitano" disse, "poco fa, Carlini non ha voluto bere alla vostra salute; proponetegli ora di bere alla mia... Avrà forse più riguardo per voi che per me." Ognuno aspettava una reazione violenta di Carlini; ma, con grande stupore di tutti, prese con la mano un bicchiere, con l'altra un fiasco riempiendo il bicchiere: "Alla tua salute, Diavolaccio!" disse con voce perfettamente calma, e tracannò il contenuto del bicchiere senza che per nulla tremasse la sua mano. Poi, sedendosi accanto al fuoco: "La mia porzione di cena!" disse. "La corsa fatta mi ha ridestato l'appetito." "Viva Carlini!" gridarono i briganti. "Alla buon'ora, ecco ciò che si dice prender la cosa da buon compagno." E tutti formarono circolo intorno al fuoco, mentre Diavolaccio si allontanava. Carlini mangiava e beveva, come nulla fosse accaduto. I briganti lo guardavano stupefatti; essi non comprendevano quella impassibilità, quando intesero dietro di loro un passo pesante. Si voltarono, e scorsero Diavolaccio, che tra le braccia aveva la ragazza. Lei aveva la testa rovesciata, e i lunghi capelli fino a terra. Mentre entravano nello spazio rischiarato dal fuoco, si accorsero del pallore della donna e del bandito. Quella apparizione aveva qualcosa di così strano e di solenne che tutti si alzarono, eccetto Carlini, che restò seduto, e continuò a bere e mangiare come nulla accadesse intorno lui. Diavolaccio continuava ad avanzarsi in mezzo al più profondo silenzio e depose Rita ai piedi del capitano. Allora tutti poterono vedere la causa del pallore della donna del bandito. Rita aveva un coltello conficcato sino al manico sotto la poppa sinistra. Tutti gli sguardi si portarono su Carlini; la guaina del coltello pendeva vuota alla sua cintura. "Ah, ah" disse il capo, "ora comprendo perché Carlini era rimasto indietro." Ogni natura selvaggia è capace di apprezzare una forte azione; quantunque forse nessuno di quei banditi avrebbe fatto ciò che aveva fatto Carlini, tutti però compresero la sua azione. "Ebbene" disse Carlini alzandosi, ed a sua volta avvicinandosi al cadavere, la mano sulla impugnatura di una pistola, "c'è ancora qualcuno qui che mi disputa questa donna?" "No" disse il capo. "E' tua." Allora Carlini la prese fra le braccia, e la portò al di là dello spazio illuminato dalla fiamma. A mezzanotte la sentinella dette la sveglia, e in un istante tutti furono in piedi, il capo e i suoi compagni. Era il padre di Rita, che andava egli stesso a portar la somma per il riscatto di sua figlia. "Tieni" disse a Cucumetto, porgendogli un sacco di denaro, "ecco trecento piastre, rendimi la mia figliola." Ma il capo, senza prendere il denaro, gli fece cenno di seguirlo. Il vecchio obbedì; tutti e due si allontanarono sotto gli alberi, attraverso i cui rami filtravano i raggi della luna. Finalmente Cucumetto si fermò mostrando al vecchio un gruppo di due persone ai piedi di un albero. "Tieni" disse, "domanda a Carlini, egli te ne renderà conto." E se ne tornò verso i suoi compagni. Il vecchio restò immobile, gli occhi fissi. Sentiva che qualche sventura ignota, immensa, inaudita gravava su di lui. Al rumore che il vecchio faceva avanzandosi, Carlini alzò la testa, e le forme delle due persone cominciarono ad apparire più distinte agli occhi di lui. Una donna era coricata per terra, la testa appoggiata sulle ginocchia di un uomo seduto, chinato su di lei; nell'alzar la testa quell'uomo aveva scoperto il volto della donna, che teneva serrato contro il petto. Il vecchio riconobbe sua figlia, e Carlini riconobbe il vecchio. "Io t'aspettavo..." disse il bandito al padre di Rita. "Miserabile!" disse il vecchio. "Che hai fatto?" E guardava con terrore Rita, pallida, immobile, insanguinata, con un coltello nel petto. Un raggio di luna la rischiarava della sua pallida luce. "Cucumetto aveva violata tua figlia" disse il bandito, "e siccome io l'amavo, l'ho uccisa; poiché, dopo di lui, sarebbe stata lo zimbello di tutta la banda." Il vecchio non pronunziò una parola; solamente divenne pallido come uno spettro. "Ed ora" disse Carlini, "se ho avuto torto, vendicala!" E strappato il coltello dal seno della fanciulla, levandosi in piedi, lo porse al vecchio, mentre coll'altra mano slacciava la camicia sul petto, offrendolo nudo. "Tu hai ben fatto..." disse il vecchio con voce sorda. "Abbracciami, figlio mio." Carlini si gettò singhiozzando fra le braccia del padre della sua amante: erano le prime lacrime che versava quell'uomo sanguinario. "Ed ora" disse ancora il vecchio a Carlini, "aiutami a seppellire mia figlia." Carlini andò a cercare due zappe, e il padre e l'amante si misero a scavar la terra ai piedi di una quercia, i cui folti rami dovevano far ombra sulla tomba della fanciulla. Quando la fossa fu scavata, il padre abbracciò Rita per primo, dopo abbracciò l'amante. Quindi, prendendola l'uno per i piedi, l'altro per le spalle, la scesero nella fossa. Ciò fatto, s'inginocchiarono ai due lati della tomba, e recitarono le preghiere dei morti. Quando ebbero terminato gettarono terra sul cadavere sino a che la fossa fu colma. Allora, stendendogli la mano: "Io ti ringrazio, figliolo..." disse il vecchio a Carlini. "Ora lasciami solo. "Ma intanto..." disse costui. "Lasciami..., te l'ordino." Carlini obbedì: andò a raggiungere i suoi compagni si avviluppò nel mantello, e ben presto parve addormentato profondamente come gli altri. Il giorno prima era stato deciso che la banda avrebbe cambiato rifugio. Un'ora prima del giorno, Cucumetto svegliò i suoi uomini e fu dato l'ordine di partenza; ma Carlini non volle lasciare la foresta senza sapere che ne fosse del padre di Rita. Si diresse verso il luogo dove lo aveva lasciato. Trovò il vecchio appiccato ad uno dei rami della quercia sulla tomba della figlia. Sul cadavere dell'uno e sulla fossa dell'altra, fece allora il giuramento di vendicarli entrambi. Ma quel giuramento non lo poté mantenere perché due giorni dopo, in uno scontro coi gendarmi Romani, Carlini fu ucciso. Solamente qualcuno si stupì che avesse ricevuto una pallottola fra le spalle, mentre s'era tenuto sempre in faccia al nemico. Lo stupore cessò quando uno dei briganti fece osservare ai compagni che Cucumetto era dieci passi dietro Carlini quando costui era caduto colpito. La mattina della partenza dalla foresta di Frosinone aveva seguito Carlini nell'oscurità, aveva inteso il giuramento fatto, e da uomo cauto lo aveva preceduto. Si raccontavano ancora su cotesto terribile capobanda altre storie non meno strane di questa. Così da Fondi a Perugia tutti tremavano al solo nome di Cucumetto. Le storie di ogni genere su questo capo bandito formavano spesso l'oggetto delle conversazioni di Luigi e di Teresa. La pastorella tremava molto a questi racconti; ma Vampa la tranquillava battendo in terra il suo bel fucile. Poi, quando non era del tutto tranquilla, le faceva vedere un qualche corvo posato sopra una frasca secca di un albero, metteva il fucile alla guancia, premeva sul grilletto, e l'animale colpito cadeva ai piedi dell'albero. Frattanto il tempo passava, i due giovani avevano stabilito di sposarsi quando Vampa avesse avuto venti anni, Teresa diciannove. Erano orfani entrambi; entrambi non avevano altri permessi da chiedere che quello dei loro progetti per l'avvenire. Un giorno che parlavano dei loro proponimenti intesero due o tre colpi di fucile, quindi un uomo uscì dal bosco presso il quale i due giovani erano soliti far pascolare gli armenti, e corse verso di loro. Giunto a portata di voce, gridò tutto ansante: "Sono inseguito, potete nascondermi?" I due giovani riconobbero ben presto nel fuggitivo un bandito: ma fra il bandito ed il contadino Romano vi è una innata simpatia, per cui il secondo è sempre disposto a rendere un favore al primo. Vampa, senza dire una parola, corse ad una pietra, che chiudeva l'ingresso di una grotta, scoprì l'entrata tirando a sé la pietra, fece segno al fuggitivo di entrare in questo asilo sconosciuto a tutti, rimise la pietra e ritornò a sedersi vicino a Teresa. Quasi subito quattro gendarmi a cavallo comparvero sul confine del bosco. Tre sembravano essere alla ricerca del fuggitivo, il quarto trascinava per il collo un bandito prigioniero. Essi esplorarono il luogo con un colpo d'occhio, s'accorsero dei due giovani, corsero di galoppo alla loro volta, e li interrogarono; ma questi risposero che nulla avevano veduto. "E' spiacevole" disse il brigadiere, "perché quello che cerchiamo è il capo." "Cucumetto?" non poterono fare a meno di gridare insieme Luigi e Teresa. "Sì" rispose il brigadiere, "e siccome la sua testa porta la taglia di mille scudi Romani, così voi ne avreste guadagnati cinquecento se ci aveste aiutati a prenderlo." I due giovani si guardarono. Il brigadiere ebbe un raggio di speranza. Cinquecento scudi Romani fanno circa tremila franchi e tremila franchi sono una fortuna per due poveri orfanelli sul punto di maritarsi. "Sì, è spiacevole" disse Vampa, "ma non abbiamo visto nessuno." Allora i gendarmi percorsero il luogo in tutte le direzioni, ma inutilmente: quindi disparvero. Allora Vampa andò a togliere la pietra, e Cucumetto uscì. Egli aveva visto attraverso una fessura del macigno i due giovani discorrere coi gendarmi. Non aveva alcun dubbio sull'argomento della conversazione: aveva letto sul volto di Teresa e di Luigi l'inalterabile risoluzione di non consegnarlo. Cavò di tasca una borsa d'oro per farne loro dono. Ma Vampa rialzò la testa con fierezza: quanto a Teresa i suoi occhi brillarono pensando a tutto ciò che avrebbe potuto comprare, ricchi gioielli, e begli abiti, con quella borsa d'oro. Cucumetto era un demonio molto abile, solo aveva preso la forma di bandito invece di serpente. S'accorse di questo sguardo, riconobbe in Teresa una degna figlia d'Eva, e rientrò nella foresta volgendosi più volte, col pretesto di salutare i suoi liberatori. Il tempo di carnevale si avvicinava, il conte di San Felice annunziò un gran ballo mascherato al quale fu invitato quanto Roma aveva di più elegante. Teresa aveva gran voglia di vedere questo ballo. Luigi domandò al suo protettore, l'intendente, il permesso di assistervi per lui e per lei, nascosti in mezzo alla servitù della casa; permesso che venne loro accordato. Il ballo veniva dato dal conte particolarmente per fare cosa grata a sua figlia Carmela ch'egli adorava. Carmela era precisamente dell'età e della figura di Teresa e tanto bella quanto lei. La sera del ballo Teresa si mise quanto aveva di più bello, i suoi spilli di maggior valore, i gioielli di cristallo più rilucenti. Aveva il costume delle donne di Frascati; Luigi aveva l'abito pittoresco del villico Romano in giorno di festa. Entrambi, si mischiarono, come avevano promesso, fra i servitori ed i paesani. Il festino era magnifico. Non solo la villa era tutta illuminata, ma migliaia di lampioni a colori erano appesi ai rami degli alberi nel giardino: ben presto l'onda degli accorsi straripò dal palazzo sulle terrazze, e dalle terrazze nei viali. Ad ogni crociera vi era una orchestra, e rinfreschi ;coloro che passeggiavano si fermavano, formavano delle quadriglie e ognuno ballava dove più gli piaceva. Carmela portava il costume delle donne di Sonnino: aveva la pettinatura intrecciata di perle, gli spilli dei capelli d'oro e di diamanti, il busto era di seta turca a gran fiori di broccato, la giubba e le gonnelle di cachemire, i1 reggiseno di mussola delle Indie, i bottoni della giubba altrettante pietre preziose. Due delle sue compagne portavano il costume delle donne della Riccia. Quattro giovani dei più ricchi e delle famiglie più nobili di Roma l'accompagnavano, vestiti da contadini d'Albano di Velletri di Civita Castellana, e di Sora. Questi costumi da contadini, come quelli da contadini erano risplendenti d'oro e di pietre. Venne a Carmela l'idea di fare una quadriglia; mancava però una donna. Carmela guardò intorno a sé, e fra le invitate non trovò alcuna che portasse un costume analogo al suo ed a quello delle compagne. Il conte di San Felice le mostrò fra le contadine Teresa, che stava appoggiata al braccio di Luigi. "Me lo permettete, padre mio?" disse Carmela. "Senza dubbio!" rispose il Conte. "Non siamo a carnevale?" Carmela si accostò ad un giovane che l'accompagnava, e gli disse alcune parole a bassa voce, indicandogli col dito la ragazza. Il giovane si volse, seguì cogli occhi la direzione della bella mano, fece un gesto di obbedienza, e andò ad invitare Teresa perché venisse a figurare nella quadriglia diretta dalla figlia del Conte. Teresa sentì come una fiamma salirle al viso. Interrogò con uno sguardo Luigi: non c'era mezzo di rifiutare. Luigi lasciò lentamente sdrucciolare il braccio di Teresa, e Teresa si allontanò condotta dal suo elegante cavaliere, e tutta tremante venne a prendere posto nella quadriglia aristocratica. Certamente, per un artista, l'esatto e severo costume di Teresa avrebbe avuto tutt'altro carattere che quello di Carmela e delle sue compagne; ma Teresa era una ragazza frivola e civetta: i ricami sulla mussola, le palme della cintura, lo splendore del cachemire l'abbagliavano, il riflesso degli zaffiri e dei diamanti la rendevano ebbra. Dall'altra parte, Luigi sentiva nascere in sé un sentimento sconosciuto era come un dolore sordo che mordesse sulle prime il cuore, e di là corresse fremendo nelle sue vene e s'impadronisse di tutto il corpo. Egli non perdeva un momento d'occhio i piccoli movimenti di Teresa e del suo cavaliere; allorché le loro mani si toccavano, provava delle vertigini, le arterie gli battevano con violenza, e si sarebbe detto che il suono di una campana ripercuotesse le vibrazioni nelle sue orecchie. Quando parlavano fra di loro, quantunque Teresa ascoltasse timidamente e con gli occhi bassi i discorsi del cavaliere, siccome Luigi leggeva negli occhi ardenti del bel giovane che erano elogi, gli sembrava che la terra girasse sotto di lui, e che tutte le voci dell'inferno gli soffiassero impulsi di omicidio. Allora, temendo di lasciarsi trasportare a qualche pazzia si aggrappava con una mano all'albero contro il quale era appoggiato e con l'altra stringeva con un movimento convulso il pugnale dal manico intagliato, che era nella sua cintura, e che senza accorgersene qualche volta cavava dal fodero quasi interamente. Luigi era geloso: capiva che Teresa poteva sfuggirgli, trasportata dalla sua natura orgogliosa e ambiziosa, e frattanto la contadinella, che sulle prime era timida e quasi spaventata, si mise presto a suo agio. Si disse che Teresa era bella. Questo però non era tutto. Teresa era di quella grazia selvaggia molto più possente che la nostra grazia studiata ed affettata. Ebbe quasi gli onori della quadriglia, e se fu invidiosa della figlia del conte di San Felice, non oseremo dire che Carmela non fosse gelosa di lei. Così a forza di complimenti il suo bel cavaliere la ricondusse dove l'aspettava Luigi. Due o tre volte, nel tempo del ballo, la ragazza aveva volto lo sguardo su lui, e ogni volta lo aveva visto più pallido, e con i lineamenti più alterati. Una volta i suoi occhi rimasero abbagliati da un lampo di sinistro augurio, nel vedere la lama del coltello cavata per metà dal fodero; quasi tremando riprese il braccio dell'amante. La quadriglia ebbe momenti felici; sembrava evidente che si sarebbe proposto di ripeterla una seconda volta. Carmela sola si opponeva, ma il conte di San Felice pregò tanto teneramente la figlia, che finalmente acconsentì. Subito uno dei cavalieri si lanciò per invitare Teresa, senza la quale era impossibile che si potesse fare la quadriglia, ma la giovinetta era già sparita. Infatti Luigi non avrebbe sopportato un secondo ballo, e con la persuasione e con la forza, aveva trascinato Teresa da un altro lato del giardino. Teresa aveva ceduto suo malgrado; ma aveva visto il volto alterato del giovane, e capiva dal suo silenzio, interrotto da un fremito nervoso, che in lui avveniva qualche cosa di strano. Lei pure non era esente da un'interna agitazione; e quantunque non avesse fatto niente di male, comprendeva che Luigi avrebbe avuto ragione di farle dei rimproveri. Su che? Non lo sapeva, ma si accorgeva che sarebbero stati ben meritati. Con gran sorpresa di Teresa stette muto, e durante il rimanente della sera le sue labbra non dissero più una parola. Solo, allorché il freddo della notte aveva costretti tutti gli invitati a lasciare i giardini, e le porte della villa furono chiuse per dar luogo alla festa interna, ricondusse a casa Teresa. Poi, quando fu sulla soglia, le disse: "Teresa, che pensavi, quando ballavi dirimpetto alla contessina di San Felice?" "Pensavo" rispose la ragazza con tutta la franchezza dell'animo suo, "che darei la metà della mia vita per essere vestita come lei." "E che ti diceva il cavaliere?" "Mi diceva che dipendeva soltanto da me, e non dovevo dire che una parola per ottener questo." "Aveva ragione" rispose Luigi. "Lo desideri tu così ardentemente come dici?" "Sì." "Ebbene l'avrai." La ragazza alzò la testa per interrogarlo, ma il viso era così tetro e così terribile, che la parola le si ghiacciò sulle labbra. D'altra parte dicendo queste parole Luigi si era allontanato. Teresa lo seguì con gli sguardi fra le tenebre fino a che poté scorgerlo. Poi quando fu sparito, rientrò sospirando nella sua cameretta. Quella medesima notte accadde un grande avvenimento che fu giudicato prodotto, senza alcun dubbio, dall'imprudenza nel trafficare coi lumi: la villa San Felice prese fuoco, proprio dalla parte dell'appartamento della bella Carmela. Svegliata nel mezzo del sonno dalle fiamme era saltata dal letto, si era avvolta nella veste da camera, ed aveva tentato di fuggire dalla porta; ma il corridoio per il quale bisognava passare era già tutto in preda all'incendio. Allora rientrò nella sua camera, chiamando ad alte grida soccorso. Quando la sua finestra posta a venti piedi dal suolo si aperse, un giovane contadino si lanciò nell'appartamento, la prese fra le braccia, e con una forza e destrezza sovrumane la trasportò sull'erba del prato dove rimase svenuta. Allorché riprese l'uso dei sensi, il padre le era vicino, tutti i servitori la circondavano portando soccorsi. Un lato intero della villa fu bruciato ma non importava, poiché Carmela era sana e salva. Venne ovunque cercato il suo liberatore, ma questi non ricomparve più: fu domandato di lui a tutti, ma nessuno lo aveva veduto. Quanto a Carmela, era così turbata che non lo aveva riconosciuto. Siccome il conte era immensamente ricco, se si eccettua il pericolo corso da Carmela, e che gli sembrò dal modo miracoloso con cui era stata salvata, piuttosto un novello favore della Provvidenza che una disgrazia reale, fu ben poca cosa per lui la perdita di ciò che avevano consumato le fiamme. L'indomani nell'ora consueta i due giovani si ritrovarono sul confine della foresta. Luigi era arrivato per primo. Egli venne incontro alla ragazza con molta allegria, e sembrava aver completamente dimenticata la scena della sera innanzi. Teresa era manifestamente pensierosa, ma vedendo la disposizione d'animo di Luigi, simulò un'allegra noncuranza che era la base della sua indole, quando qualche passione non veniva a disturbarla. Luigi prese sotto il braccio Teresa, e la condusse fino all'apertura della grotta. Là si fermò. La pastorella conoscendo che doveva esserci qualche cosa di straordinario, lo guardò fissamente. "Teresa" disse Luigi, "ieri sera tu mi dicesti che avresti dato metà della tua vita per avere un costume eguale a quello della figlia del conte." "Certamente" disse Teresa con meraviglia, "ma ero ben pazza quando esternavo un simile desiderio." "Ed io ti ho risposto: Sta bene, tu l'avrai." "Sì" soggiunse la ragazza, la cui meraviglia aumentava ad ogni parola di Luigi, "ma tu certamente hai risposto così solo per farmi piacere." "Non ti ho mai promesso cosa che non ti abbia data, Teresa" disse con orgoglio Luigi, "entra nella grotta, e vestiti." A queste parole allontanò la pietra, e fece vedere a Teresa la grotta illuminata da due candele, che ardevano ai lati di un magnifico specchio. Sopra una tavola rustica fatta da Luigi, erano distesi gli spilli di diamanti e la collana di perle; sopra una panca vicina era depositato il rimanente del vestiario. Teresa mandò un grido di gioia, e senza informarsi donde veniva questo vestito, senza ringraziare Luigi, si lanciò nella grotta trasformata in toilette. Luigi richiuse la pietra dietro di lei, perché s'accorse che sulla cresta di una piccola collina, che impediva di vedere Palestrina dal posto in cui stava, un viaggiatore a cavallo si era fermato, incerto sulla strada da tenere, e compariva nell'azzurro del cielo con quella nettezza di contorno tipica dei paesi meridionali. Lo straniero, vedendo Luigi, mise il cavallo a galoppo, e venne alla sua volta. Luigi non si era ingannato: il viaggiatore che andava da Palestrina a Tivoli era incerto sul cammino da prendere. Il giovane glielo indicò; ma siccome ad un quarto di miglio la strada si divideva in tre, e il viaggiatore, giunto a questo luogo poteva nuovamente sbagliare, pregò Luigi di servirgli da guida. Questi depose a terra il mantello, si pose sulla spalla la carabina, e liberato così dal pesante vestito, camminò davanti al viaggiatore con quel passo rapido del montanaro, che un cavallo a stento può seguire. In dieci minuti Luigi e il viaggiatore si trovarono al crocicchio indicato dal giovane pastore: con un gesto maestoso stese la mano e indicò al viaggiatore quella delle tre vie che doveva seguire. "Ecco la vostra strada Eccellenza, ora non potete più sbagliare." "E tu prendi la tua ricompensa..." disse il viaggiatore offrendo al pastore alcune piccole monete. "Grazie" disse Luigi ritirando la mano, "ma io rendo un servizio, non lo vendo." "Ma" disse il viaggiatore, abituato a quella differenza che passa tra la servilità dell'uomo di città e l'orgoglio del campagnolo, "se tu rifiuti una mercede, accetterai un regalo?" "Ah! sì, questa è un altra cosa." "Ebbene" disse il viaggiatore, "prendi questi due zecchini di Venezia, e dalli alla tua fidanzata per acquistarsi un paio di pendenti." "E voi allora prendete questo pugnale" disse il pastore, "non ne ritroverete uno, la cui impugnatura sia meglio intagliata, da Albano a Civita Castellana." "Lo accetto" disse il viaggiatore, "ma allora sono io che ti resto obbligato, perché il pugnale vale molto più di due zecchini." "Per un mercante può essere, ma non per me che l'ho intagliato io stesso, e mi costa appena uno scudo." "Come ti chiami?" domandò il viaggiatore. "Luigi Vampa" rispose il pastore collo stesso tono come avesse risposto Alessandro di Macedonia, "e voi?" "Io" disse il viaggiatore, "mi chiamo Sindbad il marinaio..." Franz d'Epinay ebbe un grido di sorpresa. "Sindbad il marinaio!" disse. "Sì" rispose il narratore, "è il nome che il viaggiatore disse a Vampa." "Ebbene, che avete da dire a questo nome?" interruppe Alberto. "E' un bellissimo nome e le avventure di chi lo portava mi hanno divertito assai nella mia prima gioventù." Franz non insistette. Il nome di Sindbad il marinaio, come si capirà bene, aveva risvegliato in lui una quantità di ricordi, non diversamente da quello che aveva fatto la sera innanzi il nome di conte di Montecristo. "Continuate..." disse all'albergatore. "Vampa mise sdegnosamente i due zecchini in tasca, e riprese lentamente il cammino per il quale era venuto. Giunto a due o trecento passi dalla grotta gli parve di sentire un grido. Si fermò ascoltando da qual parte venisse questo grido. Dopo un secondo, intese pronunciare distintamente il suo nome; la voce veniva dalla parte della grotta. Balzò come un camoscio; e mentre correva, caricava il fucile, e in meno di un minuto era sulla sommità della piccola collina opposta a quella dove aveva intravisto il viaggiatore. Là si fecero più distinte le grida: "Aiuto, soccorso!". Girò gli occhi sullo spazio che dominava: un uomo rapiva Teresa come il centauro Nesso, Deianira. Questo uomo che si dirigeva verso il bosco, aveva già percorso tre quarti del cammino dalla grotta alla foresta. Vampa misurò la distanza; quest'uomo aveva già duecento passi di vantaggio su lui, non vi era possibilità di raggiungerlo prima che entrasse nel bosco. Il giovane si fermò come se i suoi piedi avessero messo radice: appoggiò l'incasso del fucile alla spalla, levò lentamente la canna nella direzione del rapitore, lo seguì un secondo nella corsa, e fece fuoco. Il rapitore si fermò, come immobile nell'aria, le ginocchia gli si piegarono, e cadde trascinando nella sua caduta Teresa, la quale si alzò subito. L'altro restò steso dibattendosi nelle ultime convulsioni dell'agonia. Vampa si slanciò verso Teresa, che era a dieci passi dal moribondo, in ginocchio. Allora al giovane venne il terribile sospetto che la pallottola che aveva colpito l'avversario avesse ferita la fidanzata. Fortunatamente però non fu così, e il solo terrore aveva paralizzato le forze di Teresa. Quando Luigi fu ben sicuro che era sana e salva si volse verso il ferito era già morto, colle pugna serrate, la bocca contratta dal dolore, i capelli ritti dal sudore dell'agonia; gli occhi erano rimasti aperti e minacciosi. Vampa si avvicinò al cadavere e riconobbe Cucumetto. Dal giorno in cui il bandito fu salvato dai due giovani si era innamorato di Teresa, ed aveva giurato che la giovane sarebbe stata sua. Da quel giorno, l'aveva spiata con assiduità; e profittando del momento in cui il suo amante l'aveva lasciata sola per andare ad indicare la strada al viaggiatore l'aveva rapita e già la credeva sua, quando la pallottola di Vampa diretta dal colpo d'occhio infallibile del giovane pastore, gli aveva traversato il cuore. Vampa lo guardò un momento senza la minima emozione sul viso mentre Teresa, al contrario, tutta tremante ancora, non osava avvicinarsi al bandito morto che a piccoli passi, esitando uno sguardo sul cadavere al di sotto della spalla del suo amante. Dopo un momento Vampa si rivolse alla sua innamorata. "Sta bene, tu sei già vestita. Ora tocca a me prepararmi." Infatti Teresa era vestita da capo a piedi col costume della figlia del conte di San Felice. Vampa prese il corpo di Cucumetto fra le braccia, e lo trasportò nella grotta, mentre Teresa l'aspettava fuori. Se fosse passato un altro viaggiatore, avrebbe veduto una cosa strana, cioè una pastorella guardare il gregge, vestita di cachemire coi pendenti alle orecchie, una collana di perle degli spilli di diamanti, e dei bottoni di zaffiri, di smeraldi e di rubini. Senza dubbio avrebbe creduto di tornare ai tempi di Florian e di ritorno a Parigi, avrebbe assicurato di avere incontrata la pastorella delle Alpi ai piedi dei monti Sabini. Un quarto d'ora dopo, Vampa uscì dalla grotta. Il suo costume non era meno elegante, nel suo genere di quello di Teresa. Aveva una veste di velluto granato coi bottoni d'oro cesellati, un giubbetto di seta tutto ricoperto di galloni, una sciarpa annodata intorno al collo, un portacartucce tutto in oro ed in seta rossa e verde, i pantaloni di velluto celeste attaccati al disotto del ginocchio colle fibbie di diamanti le ghette di pelle di daino ricamate con mille arabeschi, ed un cappello su cui sventolavano dei nastri di ogni genere; due catene da orologio pendevano dalla sua cintura ed un magnifico pugnale era attaccato al portacartucce. Teresa gettò un grido di ammirazione: Vampa sotto quest'abito assomigliava ad una pittura di Leopoldo Robert o di Schnetz. Aveva indossato il costume completo di Cucumetto. Il giovane s'accorse dell'effetto che produceva sulla sua fidanzata, ed un sorriso di orgoglio gli sfiorò le labbra. "Ora dimmi, Teresa, sei pronta a dividere la mia sorte qualunque essa possa essere?" "Oh! sì" gridò la ragazza con entusiasmo. "A seguirmi ovunque andrò?" "Anche in capo al mondo." "Allora prendi il mio braccio, e partiamo, poiché non abbiamo tempo da perdere." La pastorella intrecciò il suo al braccio dell'innamorato, senza neppure domandargli dove la conduceva, perché in quel momento le sembrava bello, superbo e potente. E tutti e due si incamminarono verso la foresta di cui in breve tempo passarono il confine. Non fa bisogno dire che Vampa conosceva tutti i sentieri della montagna. S'inoltrò dunque nella foresta senza esitar neppure per poco, e quantunque non vi fosse praticata alcuna strada, riconosceva la direzione che doveva seguire dal solo guardare gli alberi ed i cespugli. Camminarono in tal modo per circa un'ora e un quarto. Dopo giunsero nel punto più fitto del bosco. Un torrente il cui letto era secco, conduceva in una gola profonda. Vampa prese questo strano sentiero, che, incassato fra le due rive, e ottenebrato dall'ombra degli alberi, sembrava il sentiero d'Averno di cui parla Virgilio. Teresa, tornata timorosa all'aspetto di questo luogo selvaggio e deserto si stringeva contro la guida senza dir parola; ma siccome lo vedeva camminare con un passo sempre uguale, e una calma sempre profonda era sul suo viso, lei aveva la forza di dissimulare la sua emozione. Subito, dieci passi lontano da loro, un uomo sembrò staccarsi da un albero dietro cui era nascosto, e prendendo col suo fucile di mira Vampa, gridò: "Non fare un passo di più o sei morto." "Andiamo via!" disse Vampa, facendo con la mano un gesto di disprezzo, mentre Teresa non dissimulando il terrore, si stringeva sempre più contro di lui. "I lupi forse si sbranano fra loro?" "Chi sei tu?" domandò la sentinella. "Sono Luigi Vampa, il pastore della fattoria dei San Felice. "Che vuoi?" "Voglio parlare ai tuoi compagni che sono sulla piana di Rocca- Bianca. "Allora seguimi" disse la sentinella, "o piuttosto, giacché sai la strada cammina avanti." Vampa sorrise con aria di disprezzo alla cautela di questo bandito passò avanti con Teresa, e continuò il suo cammino collo stesso passo fermo e tranquillo che lo aveva condotto fin là. Dopo cinque minuti, il bandito fece loro segno di fermarsi. Essi obbedirono. Il bandito imitò tre volte il grido del corvo, un altro grido eguale rispose a questo triplice appello. "Ora puoi continuare la strada" disse il bandito. Luigi e Teresa si rimisero in cammino; ma, mentre s'inoltravano Teresa tremante si serrava sempre più contro il suo amante; infatti attraverso gli alberi si vedevano comparire degli uomini e scintillare delle canne di fucile. L'altopiano di Rocca-Bianca era sulla sommità di una piccola montagna, che doveva certamente essere stata un piccolo vulcano estinto prima che Romolo e Remo disertassero da Alba per andare a fondare Roma. Teresa e Luigi giunsero alla sommità, e nello stesso tempo si trovarono circondati da una ventina di banditi. "Ecco un giovane che vi cerca, e desidera parlarvi" disse la sentinella. "Che vuole da noi?" chiese colui che in assenza del capo ne faceva le provvisorie funzioni. "Voglio dirvi che mi sono annoiato di fare il mestiere del pastore" disse Vampa. "Ah, capisco" disse il luogotenente, "e tu vieni a domandarci di entrare nelle nostre file?" "Che sia il benvenuto" gridarono molti banditi di Ferrusino, di Pampinara e d' Anagni, i quali avevano riconosciuto Luigi Vampa. "Sì, ma vengo a chiedervi un'altra cosa, oltre che esser vostro compagno. "E che vieni a chiederci?" dissero con meraviglia i banditi. "Vengo a domandarvi di essere fatto vostro capitano" disse il giovane. I banditi dettero in una gran risata. "E che hai fatto per aspirare a questo onore?" domandò il luogotenente. "Ho ammazzato il vostro capo Cucumetto, di cui porto le spoglie" disse Luigi, "ed ho messo a fuoco la villa di San Felice per dare il corredo di nozze alla mia fidanzata." Un'ora dopo, Luigi Vampa era eletto capitano al posto di Cucumetto."